Affidamento familiare, insussistenza stato di abbandono, rientro in famiglia, il caso di Barnea e Caldararu contro l’Italia (22/06/2017) è finalizzato con una condanna contro Italia.
Cosa succede quando un bambino allontanato dalla propria famiglia va in affidamento familiare, ne viene erroneamente dichiarata l’adottabilità, poi riformata nei successivi gradi di giudizio, e infine l’esecuzione del suo rientro con genitori e fratelli viene ritardato per anni? Subisce un grave pregiudizio e vengono violati i diritti fondamentali suoi, dei suoi genitori e della sua famiglia.
L’allontanamento dalla famiglia e l’affidamento familiare costituiscono infatti un’ingerenza gravissima nella vita privata a familiare tutelata dall’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e debbono cessare non appena possibile. Lo Stato ha infatti -ai sensi della citata norma- obblighi negativi di non ingerenza nella vita familiare e obblighi positivi di ricongiungimento figli-genitori e deve dotarsi di strumenti giuridici adeguati.
L’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel Caso Barnea e Caldararu c. Italia (sentenza 22.06.2017): i ricorrenti sono 6, genitori e 4 figli. Arrivano in Italia nel 2007, si stabiliscono in un campo rom. I genitori si prendono adeguatamente cura dei figli. La madre chiede ai servizi sociali un sussidio economico che viene rifiutato. La madre lascia i figli con un’amica E.M. che viene arrestata per truffa mentre si trova con la più piccola, C. La bambina viene collocata in casa-famiglia e poi in affidamento familiare, viene aperto lo stato di adottabilità su ricorso del Pubblico Ministero Minorile; i genitori sono autorizzati a vedere la bambina due volte al mese. Il Tribunale per i minorenni dichiara la bambina adottabile, la Corte di appello riforma la sentenza; la piccola deve tornare in famiglia ma l’esecuzione del provvedimento avviene con lentezza, inadeguatezza delle iniziative assunte, contraddizioni, la bambina sviluppa legami di attaccamento con gli affidatari e, quando rientra nella propria famiglia, triangolata tra una e l’altra situazione, riporta comunque un pregiudizio dalla sua storia di lacerazioni affettive.
L’Italia viene condannata ai sensi dell’art. 8 CEDU dalla Corte di Strasburgo per i seguenti motivi:
Sull’affidamento familiare:
- prima di dare C. in affidamento e avviare una procedura di adottabilità, le autorità avrebbero dovuto adottare misure concrete per permettere alla minore di vivere con i ricorrenti;
- Il ruolo delle autorità di protezione sociale è precisamente quello di aiutare le persone in difficoltà, guidarle nelle loro azioni e consigliarle, tra l’altro, sui diversi tipi di sussidi sociali disponibili, sulle possibilità di ottenere un alloggio sociale o sugli altri mezzi per superare le loro difficoltà: quando si tratta di persone vulnerabili, le autorità devono dimostrare un’attenzione particolare e devono assicurare loro una maggiore protezione.
- In nessun momento del procedimento, sono state riscontrate situazioni di violenza o di maltrattamento nei confronti dei minori né carenze affettive, o uno stato di squilibrio psichico dei genitori.
- Al contrario, sembra che i legami tra i ricorrenti e la minore fossero particolarmente forti e, da quando C. era stata data in affidamento, ai genitori non era stata offerta l’occasione per dimostrare le loro capacità genitoriali
- Inoltre, il tribunale non aveva preso in considerazione la prima perizia favorevole ai ricorrenti.
La Corte ritiene che i motivi per i quali, nella fattispecie, il tribunale ha negato il ritorno di C. presso la sua famiglia e dichiarato l’adottabilità non costituiscano circostanze «del tutto eccezionali» tali da giustificare una rottura del legame familiare.
Sulla mancata esecuzione della sentenza di Corte di appello (26.10.2012):
- la decisione del ritorno di C. in famiglia doveva essere eseguita entro un termine di sei mesi ma gli incontri non sono stati organizzati in maniera adeguata e non è stato predisposto alcun piano di ravvicinamento. I primi due ricorrenti hanno dovuto adire il procuratore per la mancata esecuzione e il procuratore ha adito il TM per richiedere proroga dell’affidamento e ridotto gli incontri di C. con i genitori.
- Le autorità competenti non hanno fatto il possibile per mantenere le relazioni personali e, se del caso, per «ricostruire» la famiglia al momento opportuno.
- Il tempo trascorso – conseguenza dell’inerzia dei servizi sociali nell’attuazione del piano di ravvicinamento – e i motivi addotti dal tribunale per prorogare l’affidamento provvisorio della minore, hanno contribuito in maniera decisiva a impedire la riunione dei ricorrenti con la bambina, che avrebbe dovuto avere luogo nel 2012.
La Corte conclude che le Autorità italiane non si sono impegnate in maniera adeguata e sufficiente per far rispettare il diritto dei ricorrenti di vivere con C., tra giugno 2009 e novembre 2016, quando hanno disposto l’affidamento della minore ai fini della sua adozione, e che le stesse autorità non hanno poi correttamente eseguito la sentenza della Corte d’appello del 2012 che prevedeva il ritorno di quest’ultima nella sua famiglia di origine, violando in tal modo il diritto dei Ricorrenti al rispetto della loro vita familiare, sancito dall’articolo 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
Scarica le slides dell’Avv. Ruo
La sentenza in lingua originale la puoi trovare sul sito www.ceduincammino.it